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Gli intermediari bancari e la valutazione del rischio di credito di Antonella Malinconico

 Il rischio di credito è definibile, nell’ambito di un’operazione di finanziamento, come la possibilità che il debitore risulti insolvente, cioè che non rispetti i termini contrattuali alle scadenze concordate e non rimborsi il capitale o gli interessi dovuti, con i conseguenti effetti sfavorevoli, sul piano economico e finanziario, per il soggetto finanziatore.

La valutazione del rischio è sostanzialmente un problema di trattamento delle informazioni disponibili e dati i riflessi che comporta nell’ambito della gestione bancaria, è sempre stato oggetto di accurate indagini. L’analisi della rischiosità potrebbe però assumere una diversa e maggiore importanza qualora fossero accettate alcune tesi sostenute dalle più recenti impostazioni dottrinali, ossia: 1) che, nell’ambito del sistema economico, alla banca debba essere assegnata anche una “funzione allocativa”; 2) che l’attività creditizia debba essere considerata come attività di “impresa”. In tale eventualità, infatti, una eccessiva approssimazione nella valutazione della rischiosità dei prestiti, andrebbe a ridurre il grado di efficienza con il quale gli intermediari creditizi bancari assolvono le funzioni loro assegnate.

Per indagare il primo aspetto, ossia in che modo la capacità con cui le banche “pesano” il rischio di credito inferisce sull’attività bancaria nel sistema economico l’attenzione deve porsi sui diversi ruoli che, nel corso del tempo e da diverse prospettive dottrinarie, sono stati assegnati agli intermediari creditizi bancari.

Le banche, diversamente da tutti gli altri intermediari, svolgono oltre alla funzione creditizia anche una funzione monetaria, in quanto alcune loro passività, ossia i depositi in conto corrente, sono accettate dal pubblico come mezzo di pagamento. Gli studi teorici, influenzati dalle teorie economiche prevalenti, si sono soffermati talvolta sull’aspetto monetario, altre volte su quello creditizio o, ancora, su entrambi. Appare opportuno richiamare brevemente, in merito, le ipotesi degli economisti classici, l’approccio delle asimmetrie informative e quello del delegated monitoring.

Gli economisti classici ritenevano che la moneta assumesse un ruolo fondamentale nella determinazione dell’attività economica reale; concentrando peraltro l’attenzione sulla funzione monetaria non riuscivano a cogliere la rilevanza di tutte le altre funzioni del sistema finanziario. L’importanza che i monetaristi assegnavano alle istituzioni creditizie bancarie dipendevano quindi esclusivamente dal ruolo da queste assunto nel sistema dei pagamenti. Nella old view della banca era proprio la capacità di creare moneta l’unica specificità riconosciuta a questo intermediario.

In via successiva anche la funzione creditizia è stata ampiamente enfatizzata in dottrina ma le due funzioni fondamentali così identificate rimanevano, per così dire, distaccate, non si percepivano cioè i nessi tra le stesse e le frequenti interazioni. E’ al contributo di Gurley e Shaw (1955) che si deve la nascita della nuova teoria dell’intermediazione. I due autori, evidenziando i riflessi che il credito può avere sullo sviluppo economico, diedero vita ad un filone di studi in cui gli aspetti dell’intermediazione particolarmente indagati erano l’analisi del comportamento degli intermediari e la funzione creditizia da questi assolta, ma altresì al contempo i legami con la funzione monetaria. I teorici che si ponevano in questa diversa ottica individuarono, quindi, proprio nell’intreccio fra le due funzioni, monetaria e creditizia, le specificità della banca.

Successivamente, il verificarsi di una serie di fenomeni economici, quali l’allentamento del legame di fatto esistente fra moneta e credito, nonché il processo di innovazione e deregolamentazione finanziaria, spinsero una parte della dottrina a rivedere le ipotesi tradizionali che definivano le caratteristiche e le funzioni della banca e ad indagare sulle ragioni dell’esistenza stessa dell’intermediario creditizio bancario. Fra le diverse tesi proposte, particolare rilievo è stato attribuito a quelle sviluppate nell’ambito dell’approccio teorico delle “asimmetrie informative”.

Con la tesi delle “asimmetrie informative”, fu dimostrato che il malfunzionamento di alcuni mercati poteva essere spiegato dalla non equilibrata distribuzione delle informazioni fra compratori e venditori sulla qualità dei prodotti. Questo approccio, originariamente formulato per i mercati dei beni, è stato proficuamente traslato nei mercati in cui vengono scambiate le attività finanziarie. La condizione di non simmetria nella distribuzione delle informazioni fra creditori e debitori è causata dall’oggettiva difficoltà che incontrano i richiedenti finanziamenti a comunicare direttamente ai mercati finanziari la qualità dei progetti da finanziare. Questa distorsione ha un impatto sul livello globale dell’attività nel mercato: infatti, se le informazioni disponibili sono solo sommarie, allora per i finanziatori sorge il problema di analizzare l’attendibilità delle notizie fornite. I potenziali creditori, non essendo nelle condizioni di distinguere tra progetti “buoni” e progetti “cattivi” in termini di trade off fra rischio e rendimento, impiegheranno i propri fondi a dei tassi che non sono adeguati alla effettiva bontà delle iniziative, bensì a tassi che tenderanno a riflettere la qualità media dei progetti. A queste condizioni potrebbero scattare dei meccanismi di “selezione avversa”, nonché di “rischio morale”.

Il primo tipo di rischio, di adverse selection, si verifica allorché i richiedenti prestiti per investimenti di migliore qualità, non potendo essere finanziati ad un tasso di interesse che rifletta la bassa rischiosità dei propri progetti, tenderanno ad uscire dal mercato. La conseguenza sarà l’abbassamento della qualità media degli investimenti per cui sono richiesti fondi nel mercato.

Il “rischio morale”, o moral hazard, è invece relativo a contratti di finanziamento già in essere, per tali rapporti potrebbe, infatti, verificarsi che i prenditori, al crescere del tasso di interesse richiesto, reagiscano attuando, con i finanziamenti già ottenuti, dei progetti che presentano una maggiore redditività, ma anche un grado di rischiosità più elevata.

Gli intermediari creditizi bancari, secondo quest’approccio, avrebbero la capacità di superare più facilmente di altri intermediari le inefficienze informative tipiche del mercato dei finanziamenti. Le banche, sfruttando la reputazione acquisita, sono nella condizione di poter innestare dei rapporti fiduciari con le imprese richiedenti e di conseguenza hanno accesso alle informazioni “riservate” necessarie per valutare gli affidamenti richiesti. Inoltre, per il fatto stesso di svolgere tale attività in modo sistematico ed organizzato, le aziende di credito sarebbero dotate di una maggiore capacità di interpretare tali dati e di valutare il rischio connesso ai progetti. Questi intermediari, quindi, erogano finanziamenti ma contemporaneamente, nella fase di selezione delle domande da soddisfare (screening) e nell’azione di sorveglianza continua dell’azienda prenditrice (monitoring) attuano anche una funzione di produzione di informazioni. Si può quindi affermare che “la funzione allocativa” – consistente non già in un semplice processo di ridistribuzione del credito, bensì in una attività di discriminazione fra i diversi progetti di investimento – viene particolarmente valorizzata nell’approccio teorico basato sull’ipotesi di asimmetrie informative.

Il successivo sviluppo dottrinale, definito delegated monitoring, ha portato poi a sostenere la tesi che agli intermediari sia attribuita, da parte dei depositanti, una sorta di “delega al monitoraggio dei prenditori”. I costi connessi agli incentivi che devono essere pagati alla banca affinché esegua il monitoraggio in tanto possono essere da questa sostenuti, in quanto tale intermediario ha la capacità, non solo di selezionare la clientela da affidare ma anche, grazie alla massa di volumi intermediati, di diversificare gli investimenti in modo da ridurre il rischio complessivo del proprio portafoglio prestiti a vantaggio di tutti i depositanti. Da ciò deriverebbe che, in un mercato caratterizzato da elevati costi di transazione, incertezza, nonché, asimmetrie informative, la presenza di intermediari in grado, nonostante queste frizioni, di selezionare i progetti migliori, consentirebbe una più efficiente allocazione delle risorse finanziarie rispetto a quanto non possa accadere se l’incontro fra domanda ed offerta avvenisse direttamente.

Il prevalere, in tempi più recenti, di questa impostazione ha portato una parte della dottrina ad affermare la tesi che agli intermediari creditizi bancari, all’interno del sistema economico, sia attribuito, come compito primario, quello di svolgere una «funzione allocativa in condizioni di efficienza».

Questa consiste in una distribuzione delle risorse tale che, mediante il finanziamento dei progetti più meritevoli sotto il profilo dei rendimenti attesi e del rischio connesso, venga garantito il più elevato tasso di sviluppo per il sistema nel suo complesso. Tale assunto, interpretato secondo una prospettiva microeconomica, porta a sostenere che l’intermediario, per effettuare una scelta corretta, debba assumere piena consapevolezza delle scelte di finanziamento disponibili. Di conseguenza, per raggiungere l’efficienza allocativa è tenuto in primo luogo a realizzare una precisa valutazione del rendimento atteso e del rischio derivante dalla probabilità di mancato rimborso di ciascuna operazione di prestito fattibile.

E’ stato inoltre rilevato come, per la parte del rischio connesso alla probabilità di insolvenza delle imprese affidate che gli intermediari trasleranno sui depositanti e che non può essere ridotto con la diversificazione, le banche svolgerebbero il ruolo di garanti nei confronti del mercato per le informazioni riservate ricevute dai beneficiari circa la loro capacità di rimborso. Superata quindi la visione limitata dell’approccio classico che definiva la funzione creditizia come un semplice processo di ridistribuzione del credito, si è arrivati, in un’ottica evolutiva, a riconoscere che in questa funzione è possibile individuare non solo la prestazione congiunta di un servizio di credito e di un servizio di selezione dei rischi, ma anche una sorta di servizio assicurativo, il cui contenuto principale risiede proprio nella gestione del rischio.

Per quel che concerne il secondo aspetto, ossia l’importanza da attribuire alla valutazione del rischio di credito nell’ambito della gestione bancaria, ciò che rileva è la concezione stessa di attività creditizia.

Una parte della dottrina ha lungamente sostenuto che nella raccolta del risparmio e nella erogazione del credito si dovessero individuare degli elementi di “servizio pubblico”. Sebbene questa visione non fosse da tutti condivisa, la sua diffusione ha comunque comportato delle difficoltà nella definizione degli obiettivi che queste organizzazioni dovrebbero perseguire. Gli importanti cambiamenti che hanno interessato i sistemi finanziari hanno avuto enormi riflessi anche sull’attività bancaria. Secondo alcuni, questa evoluzione sarebbe stata tale da implicare l’assunzione, da parte della dottrina, della giurisprudenza e delle Autorità creditizie, di una diversa concezione dell’attività creditizia, ossia l’abbandono di una visione che privilegiava l’aspetto “istituzionale” della banca e l’assunzione di una concezione dell’attività stessa come funzione di tipo imprenditoriale. Invero, nei principali sistemi creditizi si è assistito ad un processo di deregolamentazione e ad una graduale trasformazione dell’esercizio dell’attività di regolamentazione e supervisione da parte delle Autorità creditizie, che sembrano convalidare questa tesi.

L’adozione di schemi imprenditoriali ha portato ad affermare che, in coerenza con quelle che sono le proprie specificità e date le funzioni che é chiamata a svolgere nel sistema finanziario, la banca, alla stregua di qualsiasi altra impresa, è tenuta a raggiungere obiettivi di redditività del capitale investito e di rendimento del capitale proprio nonché, in stretta interrelazione, di ottimizzazione della propria posizione nei mercati in cui opera.

L’orientamento alla redditività potrebbe manifestarsi in misura maggiore o minore: dipende largamente dalle caratteristiche della funzione obiettivo della singola istituzione e può variare in dipendenza del quadro normativo e del contesto istituzionale entro cui si svolge l’intermediazione in prestiti. Ma, nell’ipotesi di “banca–impresa”, l’obiettivo della redditività sarebbe comunque presente. Le trasformazioni intervenute nel mercato del credito hanno imposto che la gestione delle banche sia continuamente tesa al miglioramento, quando non al recupero dell’efficienza gestionale, e l’affermazione, ormai da alcuni anni, del concetto di “banca come impresa” ha rappresentato un momento cruciale di svolta nella filosofia di gestione di queste aziende.

Al perseguimento dell’obiettivo reddituale concorre, in misura ridotta rispetto al passato, ma pur sempre molto rilevante, l’attività di impiego in prestiti che comunque rappresenta per antonomasia il compito “istituzionale” della banca. L’intermediario creditizio, fra l’altro, data la sua natura, dispone di strutture organizzative, competenze professionali, nonché informazioni che rendono ancora questo impiego, per quanto costituisca un prodotto “maturo”, sufficientemente competitivo – in termini di combinazioni rischio-rendimento – rispetto ad altre forme di investimento.

Oltre al contributo che l’attività di impiego in prestiti può fornire al raggiungimento dell’obiettivo reddituale, vi sarebbero anche altre motivazioni atte a giustificare la perdurante permanenza della stessa. In particolare, la dottrina ha rilevato come tale tipo di impiego consenta, fra l’altro, il raggiungimento di obiettivi di lungo periodo. Di fatto, le banche, allo scopo di ridurre i costi connessi con l’assunzione delle informazioni sulle imprese richiedenti il fido, sono indotte a instaurare con queste rapporti di lunga durata. Mediante la costruzione di tali rapporti, in un orizzonte temporale di lungo periodo è, infatti, possibile amplificare e stabilizzare la raccolta, nonché incentivare la vendita di servizi collaterali.

Ciò che più rileva, comunque, è che dall’esistenza delle “relazioni di clientela” si dispiegano importanti effetti sulle condizioni del mercato dei prestiti. In particolare, le condizioni di accessibilità del mercato da parte dei concorrenti risultano fortemente limitate. Le banche nuove entranti, anche offrendo condizioni di prezzo più favorevoli, non potrebbero annullare i benefici goduti dalle aziende di credito già esistenti. Gli elementi fiduciari e la capacità di gestire informazioni riservate, tipiche del rapporto di prestito, contribuiscono, cioè, a determinare caratteri monopolistici od oligopolistici del mercato. Ciò conferisce agli istituti creditizi un potere particolare nei confronti dei debitori che si rifletterà sui tassi da questi applicabili e quindi sulle condizioni di redditività.

La politica di impiego in prestiti rappresenta un processo decisionale alquanto complesso: le scelte da farsi riguardano innanzi tutto la dimensione e la composizione del portafoglio prestiti in relazione a parametri quali le tipologie di affidati, le aree geografiche di preferenza, le forme tecniche; rilevanti sono anche altre aspetti quali le strategie di crescita, le politiche di tasso, nonché lo sviluppo di relazioni di clientela. Di fatto, la qualità del portafoglio prestiti incide notevolmente sulla redditività della gestione bancaria.

Importante è, comunque, sottolineare che “l’obiettivo generalmente posto dalle ipotesi della teoria neoclassica alla base dei comportamenti aziendali, ovvero la massimizzazione del profitto e del valore per gli azionisti, deve comunque sempre intendersi al netto del rischio sopportato. Ciò vale ancor di più per l’azienda bancaria dove il rischio è latente nelle varie attività finanziarie e, in modo particolare, insito nell’attività di impiego in prestiti.

La valutazione della rischiosità del credito assume pertanto un ruolo chiave nell’ambito del processo decisionale che concerne la politica degli impieghi[37]. In quest’ultima non solo si concretizza la “funzione allocativa” assegnata dal sistema all’impresa bancaria, ma si ritrova anche uno strumento che, se efficientemente utilizzato, può fortemente contribuire al raggiungimento degli obiettivi imprenditoriali della banca. Solo se la banca è in grado di determinare in modo corretto il rischio di ciascun prestito e, assai più, il rischio del complessivo portafoglio l’allocazione efficiente dal punto di vista microeconomico coinciderà con quella di carattere generale.

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